Cosmopolitan inaridito

Non ho mai pensato di avere credibilità ai miei occhi. Ma quando cominci ad assumere età che non vorresti, ti chiedi quando tu abbia intrapreso la strada della volgarità gratuita ed esibita come intelligenza, come valore.

Non pensavo.

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Deformemente casuale.

Dammi l’idea di poter essere con te. Dammi la volontà che sia tua. Sto diventando esperto nel mio ricamo. Ho sempre avuto una particolare predisposizione per il crearmi mondi che non fanno parte del mio mondo reale. Perchè questo mondo reale sembra non esser capace di colori fucsia, viola e rossi. Ma rosso brillante, eh. Perchè in questo mondo reale c’è bisogno di deformare un po’ tutto per credersi sereni al punto giusto. Deformare fino a che quella stessa stupidissima deformazione non acquisisca valore di verità. E il limite tra ciò che hai deformato e il risultato di questa autodisonesta operazione è sottile. Ma alla fine vince comunque la deformazione perchè ti piace di più, perchè più desiderosa di accostarsi a ciò che tu tanto vuoi avvicinare a te. Alla fine hai cercato di deformare la realtà perchè non ti piaceva e ciò che ottieni è un’altra dannatissima realtà che è diventata reale.

Voglio preferire la deformità delle scelte. Voglio credere che tu possa amare me anche se tutto è contro me e te. Voglio che questo silenzio che mi circonda diventi puro. E non-storico. Mi vedi?

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Della paura di fermare.

Eccomi qui. Rieccomi qui. Forse questa volta per ritornarci seriamente. Senza più paure nè termini da contraddire. Sento di riavvertire quell’insano bisogno di violentarmi. Parlare per violentarmi. Parlare per coltivarmi. Parlare per annusarmi. Parlare, nel modo in cui il mio parlare è uno scrivere. Perchè il panico incombe e non intendo dargli corda. Non intendo fingere autocompiacimento nel ripiegare su me stesso. Perchè si può solo fingere autocompiacimento. Se tu mi vedessi ora, chissà cosa penseresti. Chissà se il disumanizzante cui sono andato incontro ti permetterebbe di pensare. Chissà se tu, nelle tue condizioni, saresti in grado di pensare a prescindere dall’orrore che ho provocato. Dalle aspettative che ho probabilmente deluso. Perchè è come se ci fosse un’assurda e surreale tendenza a sfatare quei miti che credevi inimitabili e inafferrabili. Se c’è qualcosa che il mondo conosce di me, è esattamente ciò che non mi appartiene. Ciò che finge di essere me perchè ho fatto sì che il mio dna fingesse. Ma non ricordo l’era. Non ricordo quando è successo. Il tutto ha un sapore sensorialmente ancestrale. Non ricordo quando io abbia deciso di dare più importanza alla mia maschera piuttosto che a me. Non che abbia sbagliato. Non che abbia fatto la scelta ideale. Privo di giudizi su di me perchè non riesco a trovarmi più. Perchè non so riconoscere il punto preciso di quell’incredibile limite che dovrebbe separare me da me. Perchè ho sempre pensato che le condanne gratuite siano, per quanto derise, le migliori amiche di questa maschera ambiziosa e meschina. Perchè tu non mi guardi e probabilmente mai lo farai e tu m’avevi guardato, invece. E’ leggero quelllo che penso di te. Appartiene alle falene, che io trovo bello immaginarle a cantare. Appartiene a me nell’istante in cui comincio a pensare a te e smetto di pensare a qualsiasi altra cosa. E in quel momento sono io a crearti. A disegnare un tracciato che tu, volente o nolente, seguirai. Perchè nel momento in cui io penso a te, nel momento in cui io penso di te, anche se tu non sei vicino a me, io t’indico una sfacciata direzione. E qui non c’entrano questioni di affinità più o meno anacronistiche. Qui, l’unica cosa che ha senso è la direzione che tu, involontariamente, lasci che io definisca per te. Senza mai per questo circondarti da me. Senza mai rivolgere lo sguardo a me.

Sempre in silenzio.

Sempre il silenzio.

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